Indice
Il quartiere Ferrone
Il territorio del nostro quartiere, nelle antiche mappe, è parte della vasta regione campestre detta “S.Teodoro”, rigata dalla rete di canali formata dal Ferretta-Pistoira e dalla Carassona, punteggiata di cascinali. Il nome della regione derivava da quello di una cappella che sorgeva sulle sponde dell’Ellero, appena sopra il Rinchiuso, crollata a metà Settecento insieme ad un lembo di calanco del fiume (il titolo era stato infatti aggiunto a quello della cappella di San Rocco al Rinchiuso). La maggior parte della terra su cui insiste oggi il nostro quartiere era di pertinenza di una sola, grande cascina, che apparteneva appunto alla famiglia Ferrone, e che sorgeva lungo la “via di san Biagio” (l’attuale via san Bernardo) all’incirca all’altezza dell’incrocio con corso Europa. Era una cascina di grandi dimensioni, formata da due corpi edilizi disposti ad angolo, e costituiva una specie di porta di ingresso per la città. I Ferrone erano una famiglia borghese molto ricca, che tra la fine del Settecento e l’età napoleonica prosperava nel commercio tra Liguria e Piemonte: erano infatti “fondichieri”, ossia proprietari di un grande magazzino di drogheria e spezieria. La cascina fu saccheggiata e data alle fiamme dall’ esercito francese piombato da Cuneo il 22 maggio 1799 a sedare la rivolta monregalese. Michele Maurizio Ferrone, durante l’età francese, divenne Segretario del Catasto della città. Un suo discendente, l’avvocato Ferrone, nei primi decenni del XX secolo cominciò a vendere piccole porzioni della grande tenuta, e presero a sorgere le prime villette residenziali.
Le cappelle
Sono tutte collocate lungo una delle vie di accesso alla città, proprio dove la città stessa compare alla vista del viandante. I viaggi nel medioevo e nella prima età moderna erano sempre difficili e rischiosi: l’essere arrivati meritava una preghiera, al riparo dall’ombra e dalla pioggia. Le cappelle sono inoltre costruite per lo più nei pressi di una sorgente, per accogliere i viandanti anche con un sorso d’acqua. In origine sono molto piccole, con un’immagine sacra ed un portico aperto sulla fronte; col tempo vengono allungate per poter ospitare più persone, ed infine dotate di una parete frontale che le rende degli edifici chiusi, in cui animali e malintenzionati non possono entrare. Questo processo si compie nel corso del secolo XVI, in seguito alle visite ispettive ecclesiali ed al rigore della Controriforma.
Sulla data della loro fondazione non esiste alcun documento. Probabilmente sono sorte insieme alla città di Mondovì, ma non si può escludere che esistessero anche prima: la rete viaria su cui sorgono infatti è grosso modo quella che collegava almeno già da un secolo il signorato consortile di Morozzo (passando per i monasteri di S.Biagio e di Pogliola) con i propri castelli o con centri religiosi benedettini di una certa importanza (in particolare, il castello ed il priorato di San Pietro di Vasco ed il priorato di Sant’Arnulfo).
Due di esse hanno una particolare importanza: San Bernardo per lo straordinario ciclo di affreschi quattrocentesco, e San Bernolfo – oltre alle sue pittura, in parte ancora da scoprire – per il suo valore storico e religioso.
San Bernardo sorge sull’antica “via di San Biagio” nei pressi dell’Ospedale, è talvolta chiamata San Bernardo delle Forche per alcuni graffiti interni popolareschi (la presenza di un patibolo, come la connessione al convento delle monache di Pogliola non hanno valore storico) , contiene un ciclo di affreschi a tema unico: la lactatio virginalis, da alcuni sermoni di San Bernardo di Clairvaux, sul valore di intercessione della Madre di Gesù, in particolare per la salvezza dei moribondi. Gli affreschi, espressione del tardogotico monregalese, sono databili attorno al 1430. Per quanto riguarda San Bernolfo, per la tradizione corrente (non esistono infatti conferme documentarie), sotto il nome di Bernolfo si celerebbe un vescovo della Diocesi di Asti (alla quale apparteneva questo territorio fino al 1388) martirizzato per mano dei saraceni e qui sepolto, all’inizio del X secolo, tre secoli prima della nascita della città. La cappella insomma sarebbe luogo antichissimo e riconosciuto da tempo immemorabile come importante per il suo valore simbolico, sorto per fare memoria di eventi legati all’affermazione della fede cristiana in epoche di grave travaglio. E’ inoltre la più antica del quartiere e della città ad avere una datazione certa (1301).
La altre cappelle campestri della parrocchia hanno una storia ancora in gran parte da raccontare. Sono nate tra il medioevo e l’età moderna per iniziativa di gruppi parentali e di vicinato di cui talvolta prendevano il nome (è il caso, probabilmente, della cappella di S.Giovanni dei Quassini). Le visite pastorali cinquecentesche cercarono di imbrigliare sotto l’autorità della parrocchie questi centri religiosi periferici, sempre tentati di costituire un’alternativa all’influenza della parrocchia stessa. I vescovi intervennero così con disposizioni sugli affreschi e sugli arredi interni, ordinando spesso la loro copertura quando la raffigurazione appariva indecorosa o teologicamente inaccettabile (per i nuovi dettami del Concilio di Trento) e pretesero correttezza nella gestione delle offerte dei fedeli.
Nel corso del secolo XVII, epoca di grave crisi economica generalizzata, le cappelle ebbero un nuovo momento di sviluppo. Molte di esse affiancarono al loro santo titolare (o lo sostituirono direttamente) san Rocco o San Magno, protettori rispettivamente dalla peste e dalle malattie degli animali (è il caso della cappella di San Rocco della borgata Capitano, di S. Giovanni dei Quassini, di San Mambotto).
La cappella di S.Bernolfo
La cappella
La cappella si presenta come un locale ampio, ad una navata. Sorge sul ciglio dell’altopiano alluvionale dell’Ellero, ed incombe sulla verde golena del torrente. L’ingresso avviene attraverso un pronao a quattro colonne di mattoni, sul lato nord della cappella, mentre l’ingresso originario sulla facciata, sul lato ovest, è attualmente murato. E’ presente un piccolo campanile sullo spigolo nord-ovest, costruito nel 1933.
E’ una struttura di fondazione antica, come suggeriscono la tessitura muraria in alcuni punti, a pietre di fiume e mattoni, e l’impianto absidale romanico a tre feritoie, tamponate nel 1765, come da data impressa nella malta.
L’interno è semplice ed ampio, con pavimento in cotto. Le pareti appaiono completamente imbiancate, tranne che nel catino absidale. Qui si nota che in ampie zone lo scialbo di calce originario è caduto, anche per un intervento maldestro di picchettatura, rivelando figure di santi.
L’altare è in muratura, e sorregge una vela – pur’essa in muratura – interamente ricoperta da un affresco: un retablo quattrocentesco, centro focale della cappella.
Il santo
Sulla collocazione temporale della vicenda umana di san Bernolfo, sulle circostanze del suo martirio e sul suo status di vescovo di Asti storici ed eruditi hanno dibattuto da sempre, senza giungere ad alcuna conclusione fondata. La tradizione lo vuole appunto vescovo di Asti, martirizzato dai saraceni nel sec. X, e sepolto sul luogo della cappella, ma non esiste conferma documentaria di alcun tipo. Allo stesso modo ancora da chiarire è il legame con la frazione di San Bernolfo, in alta Valle Stura. Una delle lacune nella scialbatura dell’abside rivela la figura del santo durante il suo martirio per scorticatura ed eviscerazione, come descritto già nel 1788 dall’erudito monregalese Pietro Nallino [1]. Si tratta dell’unico edificio religioso noto di tutta la cristianità dedicato a tale San Bernolfo, per cui la relazione stretta tra il nome ed il luogo, e la stessa natura della cappella come luogo della sua sepoltura non trovano argomenti per essere messe in dubbio.
Il corpo del santo
Nel 1444 una parte delle reliquie (il cranio) di San Bernolfo fu racchiuso in un prezioso reliquiario d’argento di ottima fattura – oggi conservato in Duomo – a spese, come ha ricostruito lo storico Giancarlo Comino, di Guglielmo Badino di Vico.
Le ossa del santo e di due suoi compagni di martirio furono traslate in epoca imprecisata dalla cappella nella cattedrale di Mondovì Piazza e chiuse in una cassa di legno sotto l’altar maggiore. Le reliquie fanno la loro comparsa documentaria alla consacrazione della nuova chiesa rinascimentale, da parte del vescovo Fieschi, nel 1514[2].
Il reliquiario fu esaminato nel 1607, di seguito a quello di S.Donato, lo si trovò difettoso nella sua chiusura inferiore e se ne raccomandò il restauro[3].
Le ossa del santo furono spostate a fine ‘500 nella chiesa di San Francesco che aveva ricevuto funzione di cattedrale, poi divenuta il duomo settecentesco del Gallo. Nel tardo ‘700 il busto d’argento custodito in Cattedrale veniva portato solennemente in processione fino alla cappella la seconda domenica di Pasqua.[4]
Le ossa – non il cranio – furono infine profanate e disperse nei tumulti del 1799.
Luogo sacro di Mondovì
La prima menzione della cappella è nel testamento di Guglielmo Rogerio di Vico, il 5 aprile 1301, data che inserisce la cappella tra gli edifici religiosi della città più antichi ancora esistenti[5].
La fattura del reliquiario e gli interventi edilizi nella cappella (il retablo e il portico) del secolo XV, sono testimonianza che in quel secolo San Bernolfo si era già affermato come patrono della città di Mondovì, al fianco di San Donato che aveva però la sua giurisdizione soprattutto sul territorio della diocesi”[6]. I due santi compaiono entrambi nell’affresco del retablo. Ben lungi dall’essere una delle tante cappelle campestri con i suoi riti e le sue tradizioni di breve raggio, quindi, San Bernolfo si presentava come il luogo sacro della città, luogo della sepoltura del suo patrono particolare. L’amministrazione cittadina ogni anno effettuava una solenne e impegnativa processione, attestata fin dal 1498, il lunedì dell’Angelo (Pasquetta): anche se la data del martirio era fissata dalla tradizione al 24 marzo.[7]
Il 20 luglio 1501 il vescovo Romagnano creò una cappellania nella chiesa cattedrale sotto il titolo dell’Assunzione di Maria Vergine, e di “S.Bernolfo vescovo e martire” (associazione tematica presente nel retablo della cappella), cappella poi spostata nella nuova cattedrale di S. Donato, questa volta in associazione con S. Sebastiano[8].
La visita del 1583
Il visitatore apostolico Scarampi effettuò la ricognizione della cappella nel 1583, e notò come fosse priva di redditi, ad eccezione di tre mine di terra; ordinò che fosse bruciata la statua lignea del santo in cattive condizioni e impedì le celebrazioni fino a quando non fosse riparato il tetto e “resarcitis ac restauratis picturis”[9]. Nel corso del Cinquecento, specie con il vescovo Romagnano, si diffondono raffigurazioni tipiche del pantheon monregalese che vedono insieme San Bernulfo, San Donato e la Vergine con Bambino, proprio come nel retablo della cappella.[10] Solo l’esplosione tardo cinquecentesca della devozione per la Madonna di Vico porrà in ombra il riferimento a San Bernolfo come “santo della città”.
I secoli recenti
Nella relazione sulla parrocchia di S.Maria Maggiore in Pian della Valle del 1789 viene citata tra le dieci cappelle non private (a differenza, ad esempio, di S.Rocco al Rinchiuso) della parrocchia, come “provvista dalla compagnia del SS.Sacramento all’occorrenza della festa, o altro bisogno “[11]. In un simile documento di età francese (1805-1814) la cappella, situata appena fuori il recinto della città, vede la celebrazione della festa del santo con processione della Confraternita della parrocchia di S.Maria Maggiore alla mattina e messa letta. Nella Restaurazione la festa veniva celebrata, sempre il lunedì di Pasquetta, con grande partecipazione, a livello cittadino[12].
Delle stesse feste si parla in un documento del 1811, nel quale si precisa anche che i massari la curano e rendono i conti annuali al Vicario di S.Maria Maggiore. Nella relazione sullo stato della parrocchia del 1886, alla domanda “se qualche persona o famiglia vi abbia qualche diritto” si risponde che “è di spettanza alla parrocchia della Parrocchia di S.Maria che la fa funzionare “ e che “non possiede cosa alcuna. La spese si fanno dalla parrocchia”[13].
Il santo veniva invocato, a partire dall’Ottocento, durante le Rogazioni come protettore dei campi contro i vermi e gli animali nocivi, con una benedizione impartita con le reliquie la quarta domenica di pasqua, dal Belvedere.
Nel tabernacolo della cappella si conserva tuttora un reliquiario d’argento con un osso del santo.
Le pitture dell’abside
Gli affreschi del catino absidale sono cronologicamente precedenti quelli del retablo ed emergono in parte da una maldestra e dannosa scalpellatura. All’estrema sinistra compare una figura distesa che potrebbe essere il san Bernolfo di cui parla l’erudito Pietro Nallino. Questi, a fin ‘700 riferiva che “nell’antidetta cappella al dipinto suo martirio hanno dato il bianco di calcina, ivi vedevasi alla parte del Vangelo legato il santo ad un albero con uomini d’intorno, che lo scorticavano”. Lo stesso Nallino riferisce di altro affresco nella parrocchiale del Borgato in cui la raffigurazione del martirio era ancora più ricca di particolari. Seguono, proseguendo da sinistra verso destra, quattro santi, che potranno essere determinati con precisione solo dopo i lavori di scopritura e di restauro.
L’altare
La struttura originaria della cappella prevedeva un altare “a mensola, quasi quadrata ed illuminato da una finestrella a feritoia”, inserito dunque al centro del catino absidale[14]. Successivo agli affreschi dell’abside ed alla loro ricopertura è lo spostamento dell’altare avanzato verso i fedeli; in una terza fase questo altare in muratura, provvisto di un paliotto decorato ad affresco, è stato allargato, ricoperto da un nuovo paliotto decorato e dotato di una struttura a mattoni su cui è stato eseguito l’affresco del retablo che si ammira oggi.
Gli ampliamenti della cappella
La cappella ha subito diverse fasi di ampliamento nel corso dei secoli, ancora in parte da ricostruire.
In origine la cappella doveva consistere nell’abside e nel corpo avanzato fino agli zoccoli delle pareti laterali, priva di una volta. Contestuale o successivo alla sistemazione definitiva di retablo, altare e pronao (probabilmente quindi nel XV secolo) viene anche riconosciuto l’ampliamento dell’edificio e probabilmente la costruzione della facciata nella posizione attuale, con un portico in legno antistante (di cui si vedono ancora i fori di inserzione). Con un terzo intervento si è realizzata l’apertura di 6 finestre laterali e di una in facciata, a forma rettangolare, e la costruzione della volta a vele, priva di chiavi metalliche.
Il retablo
Il termine indica un polittico sistemato entro una cornice architettonica fittizia. Al centro, la madonna con bambino. Gesù ha la collo un filo di corallo, simbolo di regalità e di martirio, e regge sul pollice sinistro un uccellino: una rondine, simbolo di resurrezione, od un lucherino, simbolo della passione.
Ai lati di Maria, due vescovi, con i simboli della loro funzione: mitra e pastorale. La tradizione assegna il nome di San Bernolfo a quello di sinistra e di san Donato a quello di destra, patroni della città e – specie il secondo – della Diocesi. In alto la scena dell’annunciaziazione dell’Angelo a Maria, divisa al centro dalla raffigurazione del Cristo, seduto sulla croce, che si regge il mento con aria pensosa. Ha sul corpo i segni della flagellazione e dell’incoronazione di spine, ma non ancora quelli della crocifissione.
L’affresco di San Bernolfo è stato reso noto alla platea degli studiosi da Geronimo Raineri fin dal 1965. [15] Giovanna Galante Garrone ha individuato per affinità un gruppo di opere del Monregalese del tardo Quattrocento riconducibili alla figura od alle influenze del Maestro di San Bernolfo, e così parla delle pitture della cappella: “polittico ad affresco reso noto dal Raineri, con la Madonna col Bambino tra San Bernulfo e san Donato, il Cristo sconsolato seduto sulla croce (interpretazione di un “cuore semplice” dal tema tardogotico segnalato dal Màle), l’Annunciazione, una predella con Cristo e gli apostoli, un finto paliotto e addirittura una finta tovaglia ai lati della mensa. La qualità della Madonna della Misericordia di Villanova è indiscutibilmente più alta rispetto al polittico affrescato di San Bernulfo; il termine “naif” non è però adeguato a comprendere in quest’ultimo l’incredibile misto di candore, melanconia e affettuosità che lo caratterizza, rispetto a “veri” polittici che potrebbero essergli stati di modello; come ad esempio, il polittico, appena citato, della Galleria Sabauda, attribuito al Meastro del polittico di Boston, in cui troviamo più ricercatezza e nitore, ma anche personaggi più distaccati e enigmatici”.[16]
Il luogo
Il toponimo “San Bernulfo” individuava un’area precisa attorno alla cappella, ma soprattutto la zona tra la cappella, il torrente Ellero e la strada Morozzenga, che collegava gli insediamenti della signoria consortile di Morozzo (Vasco in primo luogo) da prima della fondazione di Mondovì. Il toponimo compare per la prima volta nel 1338, come “ad Sanctum Bernulphum”.[17]
Nel 1608 l’area “da San Bernolfo” indicava soprattutto la zona a valle della cappella, che ancora oggi consta di ampi terrazzamenti gerbidi lungo la sponda sinistra dell’Ellero, accessibili da una strada che passava – le tracce sono tuttora visibili – lambendo l’abside della cappella, e scendeva al fiume. L’area era nota come “sopra le rippe come si dice di detta Città, overo da S.to Bernolfo”[18]: un accesso comodo all’Ellero, a carriaggi e bestie da soma, l’ultimo prima della città, dato che il fiume da lì comincia a scorrere incassato e inaccessibile alla sua sponda sinistra.
Proprio per il fatto di essere accessibile alla città attraverso la regione di S.Teodoro e il Rinchiuso, l’area era in Età moderna utilizzata come luogo terminale della fluitazione annuale del legname pubblico, organizzata dalla città (ossia una “condutta di legna” “dalla montagna” “per il fiume Ellero” “dalli deputati condutieri et accensatori di detta condutta et taglio della legna”). La legna, una volta levata dal fiume, veniva ridotta in legname, e ripartita a pagamento tra i piani della città secondo il loro bisogno. Nei primi anni del ‘600 però si registrarono “disordini”, dovuti a persone soprattutto dei piani della città bassa che portavano via la legna senza autorizzazione, con carri e cavalli. La città allora fece promulgare dal duca un’ingiunzione relativa, che venne pubblicata, oltre che in tutti i piani della città bassa, anche “a santo bernolfo ove si trova la legna”[19]. La stessa proibizione fu ribadita nel 1668: quella di vendere la legna di S.Bernolfo “prima che sia tesata”, ossia misurata e tagliata[20].
Il lazzaretto
Dal Michelotti viene la notizia che presso la cappella fu aperto un lazzaretto in occasione della peste del 1630, citando la cronaca – non reperita – del Mora. [21] Il fatto è attestato esplicitamente dagli Ordinati comunali del 1630: il lazzareto fu attrezzato alla fine di maggio 1630, come “luogo destinato da (nel senso di “nei pressi di”) S.Bernolfo” con la costruzione di “cabane” di legna per gli ammalati[22], e svolse la sua funzione fino al 16 febbraio 1632, giorno in cui fu recepita l’ordinanza del Magistrato della Sanità che dichiarava cessato il contagio[23]. L’accessibilità al fiume pare un requisito fondamentale della localizzazione del lazzareto: oltreché per le ragioni igieniche ovvie relative alla permanenza di un numero considerevole di quarantenanti ed ammalati, ciascuno nelle sue “cabane” lungo i terrazzamenti di S.Bernolfo che necessitavano di un accesso all’acqua, anche per le prescrizioni igieniche perscritte dal magistrato cittadino per il bestiame, che doveva, se proveniente da luoghi sospetti di contagio, essere immerso nell’acqua dell’Ellero prima di venire ammesso entro la cerchia delle mura.
Gli edifici circostanti
La cappella era probabilmente parte di un complesso edilizio più ampio. L’erudito monregalese Rolfi parlava nella seconda metà del ‘700 di “rovine dell’antico di S.Bernulfo presso l’Ellero” presso cui era stata trovata la lapide di età romana. La frase compare trascritta da Clemente Doglio in una sua miscellanea, ed è palesemente incompleta proprio nel chiarire la natura dell’edificio antico delle cui “rovine” si parla, senza peraltro fugare il dubbio che si parli semplicemente delle “rovine” della cappella, poi riedificata o restaurata[24]. A proposito di questo occorre segnalare che sotto il pronao, sopra la porta di ingresso attuale, v’è una rappresentazione a fresco della vergine di Mondovì, portante la corona (dunque non precedente il 1682, anno della solenne Incoronazione della Regina Montis Regalis), che sormonta una chiara rappresentazione semplificata dell’edificio della cappella. Questa ha dei tratti curiosi: ha la facciata come nell’assetto attuale, è ancora priva del campanile e non ha il pronao laterale. Ha invece, sul lato opposto verso l’Ellero, una cortina muraria che a sua volta contiene una poderosa torre a pianta circolare, a carattere militare. Alla destra in basso, le acque del torrente. Un’immagine che fotografa una situazione ben diversa dall’attuale, quindi, e che suggerisce allo stesso tempo la ragione del suo mutamento: se oggi cerchiamo (pur con difficoltà, per la recinzione e la vegetazione incontrollata) il lato di sud-est della cappella, troviamo che in coincidenza con il muro perimetrale della cappella inizia un dirupamento verso il letto dell’Ellero, che si interrompe solo con il passaggio dell’antica strada.
L’ipotesi di un evento franoso, dovuto ad una piena o ad un cambiamento violento dell’alveo del torrente sottostante, è possibile. Prima del 1743 la vicina – in corrispondenza della congiunzione della strada di Cuneo con quella di Villanova, dunque nell’area di via Succursale – cappella di S.Teodoro, risultava distrutta, tanto che il “titulus” veniva in quell’anno spostato alla cappella di San Rocco al Rinchiuso. La strada per Villanova doveva correre in modo assai più tortuoso di oggi, e forse più vicina all’Ellero ed alla cappella. Dal Nallino sappiamo che una nuova strada per Villanova, dopo decenni di corrosioni e dissesti della riva sinistra dell’Ellero, “fu aperta nuova a linea retta dappertutto nell’ottobre del 1784, e terminata l’anno seguente”[25].
Le vicende recenti
La scheda del Comprensorio nota ancora come “Nel 1908 i coniugi Rizzo proprietari della cascina attigua, fecero costruire un portico di nuovo accesso alla loro cascina allacciandolo alla cappella mediante un muro a nord e una rete metallica a Sud”, cita lavori di manutenzione esterna e al tetto nel 1930, e la costruzione del campaniletto nel 1933; cita ancora lavori di manutenzione al tetto nel 1945 e nel 1962.
E’ sottoposta a vincolo notificato il 29 settembre 1909.
Il 3 aprile 1929 il parroco di Piandellavalle presentò al vescovo un “Memoriale sulla cappella di S.Bernolfo”, con la citazione delle principali tracce documentarie, tesa alla “conservazione della cappella stessa”[26].
La lapide romana
All’interno è murata, spezzata, una lapide romana che il Nallino riporta per intero come segue:
LIO. A:F.
V ILAIENIO
C AVI ELIUS CF
CUN
La lapide appare, in una zona nella sua parte sinistra, coperta da cemento grigio in tempi recenti, sparso in modo frettoloso, forse a colmare un foro o una frattura[27]. La lettura della stessa lapide da parte di Giuseppe Rolfi è più incerta: “A. Aurelio A. 7. IV Babienio / E. Aurelius. e.7.M.”, e gli fa dedurre “…e ciò può dare a sospetto che nelle vicinanze di Mondovì fosse l’antica città de’ Bagienni”[28]. La lapide è poi citata da Carlo Promis, come pietra tombale di Vilaienius, accettando la trascrizione del Nallino, come nome proprio comune nella zona cuneese[29]. Citata da G.F.Muratori , viene trascritta come A(ulo) /Aur)elio, A (uli) f(ilio), Blaienio, A(ulus) (Aur)elius, C(aii) f(iluis), Can…[30], ossia come lapide sepolcrale offerta da Aulo Aurelio Blaienio figlio di Caio ad Aulo Aurelio figlio di Aulo, con la parte finale non interpretata.
[1] P. Nallino, Il corso del fiume Ellero, Mondovì 1788, p. 105.
[2] L.cit., Tomo I, p. 55
[3] ACVM, Visita vescovo Argentero, 27 marzo 1607.
[4] Grassi di S.Cristina, Memorie cit., Tomo I, p. 55
[5] G.Comino, Un testamento inedito per un reliquiario gotico: ricerche sulla devozione a San Benulfo nel Monregalese. In “Studi Piemontesi”, marzo 1990, vol XIX, fasc. 1, pp. 245- 255.
[6] G.Comino, Un testamento inedito per un reliquiario gotico: ricerche sulla devozione a San Benulfo nel Monregalese. In “Studi Piemontesi”, marzo 1990, vol XIX, fasc. 1, pp. 245- 255, qui p. 246.
[7] La Sibilla celeste. Effemeride per l’anno 1791, Avondo, Torino s.d.
[8] G. Grassi di S.Cristina, Memorie istoriche della chiesa vescovile del Monteregale in Piemonte dall’erezione del vescovato sino ai nostri tempi, tomo II, Torino 1789.
[9] G.Comino, p. 249.
[10] L.cit., p. 250.
[11] ACVM, Piandellavalle, fasc. 3°, Relazione 1789
[12] “…nel primo lunedì festivo che succede alla Pasqua, quasi tutta la popolazione della predetta città recasi in manissima vicina valle, ove in un piccolo oratorio è solennizzata la memoria del patrono S.Bernolfo: il numeroso popolo accorso si divide in brigate amichevoli, e sull’erba nascente consuma in allegria le copiose provvisioni che ha seco portate.” Corografia fisica, e statistica degli stati sardi di terraferma, in Corografia fisica, e statistica dell’Italia e sue isole, Firenze 1837 p. 177.
[13] ACVM, Stato delle chiese minori poste nel territorio della parrocchia di S.M.Maggiore in Pian della Valle, 15 aprile 1886.
[14] ACVM, San Bernolfo, relazione del Comprensorio, 1979.
[15] G.Raineri, Antichi affreschi del Monteregale, Cuneo 1965
[16] G.Galante Garrone, Alla ricerca di Rufino, e altro. Affreschi nell’antica Parrocchiale di Santa Caterina a Villanova Mondovì, in (a cura di vv.), Le risorse culturali delle valli monregalesi e la loro storia, Mondovì 1999, pp. 293-294
[17] G.Comino, p. 249.
[18] ASCM, cat.22, m. 1, 27 giugno 1608, Supplica della Città di Mondovì e rescritto ducale per impedire l’asportazione della legna di S.Bernolfo.
[19] Ivi.
[20] ASCM. Cat. 22, m.1 , 1661-1668, Proibizione ai conducenti della legna che Ellero portava a S.Bernolfo di venderla ad alcuno.
[21] A. Michelotti, Storia di Mondovì, Mondovì 1920, p. 297.
[22] ASCM, Ordinati 1630, 24 maggio.
[23] ASCM, Ordinati 1632, 16 febbraio.
[24]Memorie del padre Maestro Giuseppe Andrea Rolfi, e trascritto dal padre Clemente Vittorio Doglio, in Contado bredolese del Doglio – Memoria circa la fondazione di Mondovì, ms., ASCM, Archivio Cordero di Montezemolo, busta 25. Giuseppe Maria Andrea Rolfi (1711-1768); Pietro Clemente Vittorio Doglio (-1820).
[25] Nallino, p. 105, n. 105.
[26] Segnalata da Giancarlo Comino, manoscritto presso la Biblioteca del Seminario Vescovile di Mondovì.
[27] C. Promis, Storia dell’antica Torino, Torino 1869, p. 152
[28] ASCM, l.cit.
[29] Carlo Promis, Storia dell’antica Torino, Torino 1869
[30] G.F.Muratori, Iscrizioni romane dei Vagienni, Torino 1869